Il 14 dicembre 2010 gli studenti italiani hanno riempito le piazze delle maggiori città italiane per protestare contro una riforma universitaria – la terza in dieci anni – che minaccia l’esistenza di uno dei più estesi sistemi di alta istruzione pubblica del mondo occidentale. Gli scontri avvenuti in quella giornata non sono tuttavia la mera espressione di un’opposizione alla riforma e ai collegati tagli ai fondi pubblici. Come altrove nel mondo, questa rabbia ha le sue radici nel profondo senso di precarietà di un’intera generazione e nella ribellione alle misure inique con cui l’establishment politico-economico ha risposto alla crisi finanziaria del 2008. Lo slogan più sentito in questi mesi infatti è stato “Noi la crisi non la paghiamo”.
Come spesso accade, gli studenti e le altre categorie che hanno occupato le piazze sono stati accusati dai media di aver provocato lo scontro violento con le forze dell’ordine, istigati dai “soliti” black block. Ero nelle strade di Roma il 14 dicembre e fra gli oltre centomila manifestanti che ho visto non vi era un singolo black block. E tuttavia, sì, gli studenti erano arrabbiati, e lo sono diventati ancora di più quando l’imponente schieramento dei reparti antisommossa gli ha impedito di raggiungere la piazza del Parlamento. Nel frattempo, all’interno del Palazzo il governo imponeva un voto di fiducia per blindare l’approvazione dell’impopolare riforma.
Le università italiane hanno molti problemi, ma questa ‘riforma’ non ne affronta nemmeno uno. Molto semplicemente, si tratta di un mix di devastanti tagli associati a un corpus di cinquecento nuove regole, molte delle quali consegneranno il potere assoluto in mano alla casta dei professori ordinari – ovvero i primi responsabili dello sfascio. Ma la riforma intende anche essere un regalo alla Confindustria che ha ispirato e in parte persino redatto parte della Legge (si veda http://www.treellle.org). La riforma impone Consigli di amministrazione composti da undici membri (prima erano venti), tre dei quali dovranno provenire dal settore privato. In tale modo le aziende ottengono un posto nei CdA che potranno ora decidere, fra le molte cose, la creazione (o soppressione) di interi corsi di laurea. Ma ciò che conta di più è che i privati siederanno nei CdA senza investire un centesimo nell’università – come accade in altri paesi quando un privato vuole sedere nei consigli di amministrazione di un ateneo.
Non si capisce come tali misure possano migliorare la qualità della nostra ricerca e dell’insegnamento, come sostenuto dal governo. Quello che è sicuro è che la riforma riduce gli spazi di rappresentatività, democrazia e libertà scientifica nelle nostre facoltà. Per quanto riguarda i tagli che accompagnano la riforma, persino i timorosi rettori (perlopiù impauriti o consenzienti) hanno scritto che se la situazione non cambia nel 2012 le università non saranno in grado di pagare gli stipendi.
Sfortunatamente, dopo un infuocata sessione parlamentare, il 22 dicembre la riforma è stata approvata. Tutte le università italiane al momento sono impegnate nel processo di revisione dei propri statuti, atto necessario per poter implementare la riforma. E’ un momento assai delicato, perché ciascun ateneo, pur essendo obbligato ad applicare la legge, avrà la responsabilità di evitare che l’università diventi la succursale degli interessi del mondo economico o la vittima degli insaziabili appetiti della politica.
Qual è il destino e il ruolo delle scienze umanistiche in tutto ciò? Le facoltà umanistiche sono quelle maggiormente minacciate da questa contro-riforma. Non si tratta solo di tagli o del crescente peso delle agenzie esterne di valutazione nel determinare ‘oggettivamente’ la qualità della produzione scientifica e dell’attività didattica. Stavolta i pasdaran di Berlusconi hanno creato la “tempesta perfetta”. L’obiettivo è stato sempre lo stesso: decimare il sistema culturale, intellettuale e formativo pubblico, considerato come il brodo di coltura dei nemici politici e il rifugio dei parassiti sociali. E’ indubbio infatti che intellettuali, insegnanti, professori e formatori in Italia, oltre a non subire il fascino del Presidente del Consiglio, non hanno mai rappresentato un serbatoio di voti per la sua coalizione. E allora perché non picchiarli più duro, ora che il processo di Bologna e la crisi finanziaria rendono il lavoro di machete accettabile agli occhi degli spaventati contribuenti?
Una diluvio di nuovi regolamenti e un salasso finanziario sarebbero in grado di stendere il più robusto dei sistemi educativi. Ma se si vuole veramente farlo fuori, allora il metodo migliore è imporgli di auto-ridursi, obbligando i suoi membri a mettersi uno contro l’altro, scatenando un bagno di sangue fra le varie discipline. Questo è quello che sta accadendo nelle nostre facoltà. Come è accaduto in altri paesi, la riforma costringe i dipartimenti a unirsi o fondersi, formando nuove e non necessariamente coerenti entità. I dipartimenti con meno di cinquanta persone dovranno fondersi con altri dipartimenti. Il dipartimento dove lavoro, Italianistica, probabilmente si fonderà con quello di Studi sul Mondo antico. A livello generale, il risultato più probabile di questo processo è che molti insegnamenti e corsi spariranno, e le università saranno in grado di offrire sempre meno opportunità formative ai propri studenti. Se è vero che la frammentazione dei corsi avviata dalle precedenti riforme è stata profondamente insoddisfacente, il rimedio appare peggiore del male. Naturalmente spingere il mondo accademico a cambiare le propri abitudini mentali non è in sé sbagliato. Abbiamo disperatamente bisogno di nuove idee e di forze fresche: ma come farle accedere se nel 2012 più di trentacinque università italiane non avranno nemmeno i soldi per pagare gli stipendi a tutto il proprio personale? Questi tagli non aumentano l’efficienza del sistema, come pretende il Governo, ma lo strangolano. E per effetto della ‘riforma’ anche i corsi di laurea più innovativi, come quelli legati all’informatica umanistica, rischiano di scomparire.
Ma torniamo alla questione fondamentale, ovvero le ragioni dell’intreccio fra crisi, riforma universitaria e movimenti di protesta. Che cosa spingerebbe un governo di qualsivoglia ideologia a distruggere il proprio sviluppato sistema formativo? Come già detto, Berlusconi ha le sue ragioni elettorali. Ma non è solo questo. La crisi finanziaria internazionale è un’ottima scusa per i governi occidentali per applicare la ricetta dei leader non-eletti del mondo: i grandi gruppi economico-finanziari avrebbero infatti deciso che i paesi sviluppati non possono più permettersi un’istruzione pubblica pagata e sostenuta dallo Stato. Ma non erano questi stessi leader, fino a qualche anno fa, a sostenere di voler creare una ‘società della conoscenza’, dove la crescita sarebbe scaturita dalla ricerca e dall’innovazione, nonché dalla fecondazione delle idee che si genera quando l’intera popolazione – e non solo l’élite – raggiunge alti livelli di istruzione? Evidentemente, questi signori oggi pensano ad altro. Per esempio sanno che nei paesi emergenti come la Cina, il Brasile e l’India si va diffondendo un’istruzione di alto livello, paragonabile a quelle dei centri di eccellenza occidentali. E’ da questo bacino che le multinazionali attingeranno i talenti necessari, invece di dipendere dalle costose università dei propri paesi. Inoltre, grazie alla delocalizzazione, oltre al risparmio essi otterranno l’importante risultato di controllare meglio la forza-lavoro. Se questo è il piano abbozzato nelle recenti conferenze di Davos o Bilderberg, allora siamo all’alba di un Nuovo Ordine Mondiale anche nel campo della formazione. Al posto di alti livelli di educazione terziaria accessibili a tutti in Occidente e bassi livello per il resto del mondo, avremo un piccolo gruppo di università eccellenti distribuite su tutto il globo. In altre parole, le disparità di opportunità formative si espanderanno uniformemente ovunque. E la crema intellettuale di ciascun paese sarà assorbita direttamente dalle imprese globali che la distribuiranno nei loro luoghi di lavoro – ovviamente virtuali. In conclusione, una “produzione di massa” di beni culturali e formativi, in tempi di crisi economica, è insostenibile e in contrasto con il Nuovo Ordine Mondiale. Siete ancora sorpresi che le Humanities siano sotto attacco? E come potrebbero non esserlo, visto che “studia humanitatis” vuol dire studio e comprensione dell’uomo, cioè delle sue diversità e ricchezze culturali? Gli studi umanistici non potranno mai omogeneizzarsi a questo disegno, semplicemente perché, andando a fondo nello studio dell’uomo, ne scoprono e ne esaltano la dignità nella differenza. E’ questo il peggior nemico del Nuovo Ordine Mondiale.
Nel prossimo post tornerò sulla irrilevanza economica (e perciò ontologica) della cultura, commentando un recente intervento del Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il quale, rispondendo a un giornalista che lo incalzava a proposito dei devastanti tagli all’università, alla scuola e alla cultura, pare abbia risposto con la frase: “Dante non si mangia nel panino”.
Ma è davvero così?
La risposta alla prossima puntata!
(Ha colloborato alla stesura Patrick Boylan)
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